Interpretata da Nino D’Angelo e Maria Nazionale a Sanremo 2010
Categoria: Musica
“Letti”
Interpretata da Umberto Bindi e i New Trolls a Sanremo 1996
“Quell’attimo in più”
“Cara amica”
“Bianchi cristalli sereni”
Interpretata da Gianni Nazzaro in coppia con Don Backy a Sanremo 1971
CARTA D’IDENTITÀ
“Le solite cose”
Interpretata da Pino Donaggio in coppia con Timi Yuro a Sanremo 1968
CARTA D’IDENTITÀ
Samuele Biribicchi, il bardasso del liscio: “Senza serate è stata dura, ma ho riscoperto la famiglia”
Una lunga e piacevole conversazione, quella con il “bardasso del liscio”, che ha toccato anche la sfera privata oltre a quella professionale
ALVIANO – 24 giugno 2021 – Deciso, grintoso, coinvolgente. Sono tre aggettivi che descrivono molto bene il protagonista dell’intervista di oggi. Stiamo parlando di colui che, nelle nostre zone, è da tutti conosciuto come il “bardasso del liscio”: Samuele Biribicchi. Classe 1981, a breve compirà 40 anni, originario di Alviano, oggi è sposato con Pamela e da lei ha avuto due figli, Ginevra e Francesco. Con la fisarmonica in mano dall’età di 6 anni, calca le piazze fra Marche, Umbria e Lazio dal 1995, sempre come solista. Da tutti si fa subito ricordare per come riesce a portare avanti ottimamente le proprie serate pur essendo un “uomo solo al comando”. Un one-man-show, in pratica. Abbiamo deciso di intervistarlo in merito allo stop del mondo della musica da ballo, alla ripresa delle sagre e sul come la mancanza di serate abbia influito su di lui.

Quanto ha sofferto il settore del liscio e della musica da ballo nell’ultimo anno e mezzo? Siete stati, secondo te, adeguatamente tutelati dalle istituzioni?
Sofferto moltissimo direi. Secondo me non siamo stati tutelati in nessun modo dalle istituzioni, anzi siamo stati proprio dimenticati. Io mi gestisco essendo iscritto ad una associazione e vengo trattato in un determinato modo, mentre chi, ad esempio, ha la partita IVA, durante il primo lockdown del 2020 è stato tutelato se alla data dell’8 marzo aveva effettuato almeno mi pare 30 prestazioni, ovvero 30 serate, cosa impossibile durante la stagione invernale. Difatti non vi è rientrato quasi nessuno, per lo meno nella nostra zona, poi per le grandi orchestre del nord, ad esempio, il discorso cambia.
Aggiungerei poi che comunque tu hai un tuo lavoro come dipendente di FF.SS., mentre vi sono alcuni tuoi colleghi che vivono di musica…
La cosa peggiore è stata questa. Io, come nessuno di noi, non avrei mai pensato che sarebbe successa una cosa del genere. Personalmente ho risentito di questa cosa perché è una passione che coltivo da quando ho sei anni e suono nelle piazze dal 1995. Emotivamente ne ho risentito e posso dire che la mia vita da quel punto di vista è cambiata dal giorno alla notte. Però, a differenza mia, ci sono delle persone che vivevano con quell’attività e questo rappresenta un problema ben più grande. Siamo stati proprio dimenticati da questo punto di vista. Il nostro non è considerato un lavoro.
Personalmente, come ha influito la mancanza di serate sulla tua vita?
Devo dire la verità: pensavo che l’avrei sentita di meno. Invece la mia vita è totalmente cambiata: il telefono non squillava più e mi sono sentito solo. Io ero abituato con gli impegni sempre a mille, impegni di tutte le razze. Essendo un solista, infatti, non ho impresari che pensano ai manifesti, a prendere gli appuntamenti o a mettersi d’accordo col comitato della festa: io faccio tutto da solo. Era un continuo, in estate e in inverno, fra la programmazione delle serate e tutti gli altri impegni da assolvere. Mi facevo proprio da P.R., diciamo. Ho alcuni amici comunque che mi aiutano, altrimenti non ce la farei proprio. Di botto tutto questo era finito e, senza nessun tipo di impegno, mi sono sentito quasi inutile. Io il lavoro ce l’ho, quindi dovrei essere contento e non lamentarmi, però la passione della mia vita è quella. Il mio lavoro rappresenta una garanzia, però la mia vita sta nella musica e nelle serate. Mi è stato tolto tutto quello che mi piaceva. Continuo a ripetermi che sono un fortunato perché ho una famiglia, dei figli ed economicamente non ho avuto problemi, a livello emotivo però ho sofferto. Però poi mi sono abituato, proprio grazie alla mia famiglia. Ho potuto finalmente godermi i miei due figli, che sono ancora piccoli, facendo con loro cose che prima non avevamo fatto mai. La sera, infatti, non ero mai presente: tornavo dal lavoro e ripartivo per andare a suonare. L’estate non esistevo praticamente. Mi sono goduto delle cose che forse non avrei mai provato, dato che è stata principalmente mia moglie a crescere i nostri figli. Quindi questo lato è stato molto positivo: magari i figli sarebbero cresciuti e non avrei mai fatto quello che abbiamo passato insieme negli ultimi due anni. Questo mi ha fatto capire molte cose e dico, pubblicamente, che forse non tornerò a fare il numero di serate che facevo prima della pandemia. Dovrei trovare un giusto compromesso fra serate e vita privata, anche se non è mai facile dire no alle serate. La mia idea è sempre stata: o suono o smetto. Ora vedremo come proseguirà, considerando anche che a livello lavorativo mi sono cambiate alcune cose.
Cosa ne pensi del fatto che ufficialmente si possa suonare, ma non ancora ballare?
Penso che sia una cavolata immensa, di quelle grandi. Ora dicono che forse si ripartirà dal 10 luglio, che casualmente coincide con la mia prima serata della stagione estiva, che sarà al Dancing Due Mari di Todi. Mi erano uscite fuori delle serate anche prima, ma ho voluto attendere in quanto, per il mio stile, non amo fare delle serate da ascolto: voglio vedere le persone ballare e coinvolgerle. Le serate di musica da ascolto le faccio controvoglia. Ho iniziato proprio più tardi con la speranza che a luglio cambiasse qualcosa e su questo punto penso che quindi sarò fortunato. Avrei bypassato il problema del green pass facendo indossare la mascherina a coloro che ballano, anche se su determinati tipi di ballo capisco che possa risultare fastidiosa.
Recentemente è emersa una nuova forte polemica fra FIPE-Confcommercio e UNPLI: quale importanza riveste per voi l’organizzazione delle Sagre? Come sarebbe l’estate di un gruppo di ballo liscio senza sagre e feste popolari?
Per le orchestre l’estate rappresenta di certo e da sempre il periodo di maggior lavoro. Senza sagre noi del settore ci ritroveremmo come nel periodo invernale, ovvero suoneremmo in dei locali che hanno una pista esterna in vista della stagione estiva, che magari organizzano delle cene-ballo o il solo ballo a pagamento, ma suoneremmo comunque poco, ovvero nel fine settimana e in qualche serata infrasettimanale. La Sagra poi, l’estate, anima tutti i paesi. Oggi posso pure capire il discorso fatto dai ristoratori, un settore che ha sofferto come il nostro, dato che vedono le Sagre come una “concorrenza sleale”, ma in passato non ha avuto senso fare questa guerra. Anche per gli amanti del liscio le Sagre hanno una loro importanza, in quanto si può decidere di cenare oppure recarsi solo a ballare. Se ti rechi in un locale devi indipendentemente pagare l’ingresso e puoi recartici nella maggior parte dei casi solo nel fine settimana.
Vedi nuovamente delle balere piene per la stagione invernale 2021-2022?
No, ma è un discorso complesso. Molto dipende innanzitutto dall’andamento della campagna vaccinale. Molti sono titubanti, anche io, però lo faccio per dovere civico. Se tutto andrà bene, inizialmente magari funzionerà come ora, ovvero attraverso un green pass e con una capienza ridotta dei locali. Magari invece sarà tutto risolto e si tornerà a ballare come prima. C’è poi, purtroppo, anche un altro problema che riguarda direttamente le sale da ballo, ovvero quelle che non riapriranno. Molti gestori erano infatti in affitto e, non potendo pagarlo, i proprietari li hanno sfrattati, anche se successivamente non ha ri-affittato la struttura. In altri casi, però, questi ultimi sono stati comprensivi e non hanno preteso il canone durante il periodo di chiusura. Dopo l’estate, comunque, avremo la prova del nove per la prosecuzione della nostra stagione.
Bene, allora Samuele un grosso in bocca al lupo per la ripresa… e salutami Nando!
Presenterò! Grazie, vi aspetto il 10 luglio al Dancing Due Mari di Todi!

Covid-19 e il futuro della musica dal vivo
Domenico Raimondo ci parla di come potrebbe cambiare il futuro dei concerti e degli eventi musicali dopo il Covid-19
Prima dei registratori nessuno si sarebbe mai sognato che, un giorno, la musica sarebbe magicamente sgorgata da dispositivi elettronici senza che nessuno la stesse suonando. Eppure oggi, sul telefono, abbiamo decine di canzoni di artisti di cui probabilmente non conosciamo nemmeno l’aspetto. Fino all’inizio del 2020 sarebbe sembrato impensabile che di lì a poche settimane l’unico modo per assistere a un concerto sarebbe stato tramite uno schermo, ma da sempre la musica affianca l’umanità nella sua evoluzione, in conseguenza alle mode, tecnologie e necessità .
Nell’ultimo anno i musicisti, così come professionisti di altri settori, hanno dovuto reinventarsi per far fronte alla pandemia globale che ci ha privato di feste, spettacoli, concerti, e nella nostra società, in equilibrio tra reale e virtuale, i concerti in streaming si sono rivelati la soluzione più ovvia. Le livestream non sono comunque una novità nel mondo della musica: dal 2011 sul sito Stageit è possibile assistere, tramite l’acquisto di un biglietto, a concerti “a distanza” che non vengono registrati, durante i quali si può interagire con gli artisti e gli altri partecipanti tramite chat di gruppo.
Ma lo spirito adattativo del mondo dell’arte ha avuto anche altre trovate: in Olanda la trombettista Ellister Van Der Molen, finanziata da alcune aziende locali, si è esibita nei cortili di complessi condominiali, dove la gente ha potuto
allietarsi nuovamente con musica dal vivo dal proprio balcone.
È danese invece l’esperimento dei concerti drive-in, dove il musicista Mads Langer ha suonato su un vero palcoscenico di fronte a una folla di automobili. Seppur siano un blando aiuto, questi espedienti non permettono il sostentamento economico dei molti artisti di nicchia per i quali i concerti erano la maggiore, se non l’unica, fonte di guadagno. Gran parte degli introiti, infatti, deriva da donazioni dei fan o di chi assiste alle dirette fatte tramite appositi siti. Molti lavoratori del settore sono autonomi o intermittenti, motivo per cui difficilmente i loro mancati guadagni vengono coperti dai sussidi dello Stato o dalle associazioni.
Ma secondo gli addetti ai lavori il peggio deve ancora venire: i concerti vengono perpetuamente rimandati a data da destinarsi, ma anche quando tutto ciò sarà finito, quanto ci metterà l’industria a riassestarsi? La mancanza di eventi non penalizza solo artisti e agenti, ma tutte le figure professionali coinvolte: tecnici, autisti, addetti alla sicurezza, eccetera… Un settore in rotta di collisione con una crisi la cui eco rimbomberà ben oltre la fine della quarantena.
Una ricerca condotta dal conduttore radiofonico Carlo Pastore, su quasi 15.000 partecipanti, rivela che il 32% di essi non intende frequentare spettacoli prima del vaccino, e il 38% è restio all’idea di assistere a un concerto con mascherina e distanziamento sociale. Sempre secondo la ricerca, le livestream non rappresentano una valida alter nativa a lungo termine, dal momento che pochi sono disposti a pagare per un concerto virtuale.
Teatri e locali dovranno ridurre la loro capacità nel periodo immediatamente dopo le riaperture, cosa che non andrà sicuramente a giovare alle loro già precarie condizioni economiche. Molti di questi potrebbero decidere di continuare a collaborare con gli artisti, organizzando concerti virtuali sui loro siti e pagine social per fare un po’ di cassa e
pubblicità. I concerti in diretta streaming (o quelli drive un) sono una discreta soluzione temporanea che comunque non eguaglia l’esperienza dal vivo, dove l’effetto del palcoscenico e la connessione tra artista e pubblico non
sono virtuali.
È improbabile, e non auspicabile, che questi nuovi modi di fare musica saranno la prassi in futuro, in quanto non sono causati da un’invenzione geniale e innovativa, ma da un’emergenza sanitaria che tutti speriamo finisca al più presto.
Sanremo 2021: la vostra classifica!
Eccoci qua, sappiamo che stavate fremendo, ma finalmente eccola: la vostra classifica di Sanremo 2021 è pronta per essere gustata! Alcune conferme e alcuni… ribaltoni!
Ecco a voi la classifica espressa in percentuale, seguita da un istogramma!
- Willie Peyote: 25%
- Coma_Cose: 14,29%
- Arisa: 10,71%
- Colapesce e DiMartino: 7,14%
- Orietta Berti: 7,14%
- Bugo: 7,14%
- Annalisa: 3,57%
- Fulminacci: 3,57%
- Ermal Meta: 3,57%
- Madame: 3,57%
- Francesco Renga: 3,57%
- Måneskin: 3,57%
- Lo Stato Sociale: 3,57%
- Gio Evan: 3,57%
E il vostro vincitore è… WILLIE PEYOTE!

“Musica Regina”
Con l’assenza di tutto il contorno, finalmente al Festival di Sanremo, la musica tornerà ad essere la vera regina della manifestazione
Ogni anno, in occasione della kermesse festivaliera Sanremese, un qualche profeta più o meno anonimo prende la parola per poter profferire la consueta frase di rito: “Quest’anno la musica sarà al centro”. E puntualmente ogni anno questa frase viene smentita dalle consuete vicende di contorno (che però diventano il vero primo piatto) che spostano l’attenzione dalla musica al gossip. Basti vedere lo scorso anno la vicenda di Bugo e Morgan, ultimo vero momento di puro “italian trash” prima del dramma Covid-19. C’è da dire però che grazie a loro due ci si è divertiti parecchio.
Quest’anno, oltre a Morgan (fortunatamente), mancherà anche il contorno, dato che a Sanremo saranno presenti solo i veri protagonisti dell’evento, senza accompagnatori e sollazzatori vari, fra i quali anche le varie trasmissioni solitamente collegate con la conosciutissima cittadina ligure.
Il contorno festivaliero, ha origine ben lontane e nasce con quel gran paragnosta di Gianni Ravera che, a partire dal 1979, comprese il fatto che se il Festival fosse voluto sopravvivere a se stesso ed al suo nostalgico passato, avrebbe dovuto rinnovarsi per lo meno nel suo “paratesto”, quindi tutto ciò che circondava e abbelliva le canzoni ed i cantanti in gara. Col passare del tempo però, questo “paratesto” è diventato sempre più ingombrante, sino a prendere il posto dei veri protagonisti della gara. Ravera utilizzo tutti i mezzi a sua disposizione, anche alcuni trucchi al limite del lecito, per far resuscitare Sanremo e (lo ammetto) se il Festival mantiene oggi questa mastodontica grandezza, lo si deve per molto a lui (e a Vittorio Salvetti).
Quest’anno però, causa Covid, il tutto si riduce all’osso. E quest’osso renderà ancora più saporito un brodo quindi assai ristretto. Ci ha pensato già Fedez, pubblicando (dice per errore) un video che invece sarebbe dovuto rimanere ben chiuso nel cassetto.
Tutto è pronto, mancano solo sei giorni. Le polemiche sono già uscite e si sono già diffuse (come il Virus). Il Festival, quindi, è veramente pronto. E allora “Musica, Maestro!”
Foto di copertina: Festival di Sanremo 1980, serata finale di sabato 9 febbraio 1980. Leano Morelli si esibisce in Musica Regina
Spalle al muro
Siamo sicuri che alla libertà di stampa che viene sempre più evocata, corrisponda una reale veridicità delle informazioni che leggiamo?
Mi duole molto vedere e leggere come anche l’informazione più settoriale e dedita alla cultura sia ormai concia e satura di inesattezze che sfuggono sì al lettore generalista, ma non a quello informato nel merito e ben dedito all’approfondimento. I quotidiani odierni pullulano ormai di editoriali e commenti fatti di opinioni personalistiche, le quali riportano informazioni inesatte, anche su temi di importante rilevanza come la politica interna e la scienza. La cultura non è da meno.
In Italia, purtroppo, vige una forma di assiduo rispetto verso le “persone anziane” basato su una mera valutazione anagrafica, il quale si è ormai da tempo tramutato in un vergognoso “servilismo” ed in una accondiscendenza che ha portato alla totale assenza di spirito critico e di dovuta correzione nei confronti di tali personaggi. Un chiaro esempio è stato l’editoriale di Corrado Augias pubblicato su “La Repubblica” lo scorso sabato 30 gennaio, nel quale il giornalista è chiaramente incappato in una brutta figura verso tutti i lettori del medesimo quotidiano. Tale spiacevole situazione sarebbe stata di certo schivata con una banalissima rilettura delle bozze, operazione non effettuabile su un pezzo firmato da Augias, in quanto egli è inserito nell’elenco degli “incensurabili”.

Fatta questa doverosa premessa arrivo al punto. Il pezzo “Quando Claudio Villa faceva piangere San Giovanni” a firma del saggista Goffredo Fofi pubblicato nella sezione Agorà di Avvenire del 12 febbraio scorso, contiene numerose inesattezze (una enorme, altre di minor gravità) che potevano essere ben eluse attraverso una ordinaria ricerca tramite web o contattando un competente in ambito musicale.

Le improprietà presenti nell’articolo sono le seguenti:
1) “[…] il più squisito di tutti il fiorentino Sergio Buti […]”: non esiste alcun Sergio Buti. Il celebre interprete dalla voce tenorile rispondeva al nome di Carlo Buti;
2) “[…] Villa si azzardò anche a tradurre i Beatles a suo modo […]”: Claudio Villa non ha mai tradotto i Beatles di suo pugno. Si è solo limitato ad interpretarli (Dischi: International Hits Vol. II – Music Forever, 1970 e Una Voce, 1974). Le liriche italiane del brano Yesterday furono vergate da Marcello Minerbi e Tullio Romano nel 1964, anno in cui i due menzioni erano parte del trio Los Marcellos Ferial (insieme al non menzionato Carlo Timò);
3) “[…] il suo ultimo trionfo popolare fu Granada […]”: gravemente inesatto. Con la versione italiana del brano, Claudio Villa vinse Scala Reale il 6 gennaio del 1967. Il 28 gennaio dello stesso anno (nemmeno un mese dopo, quindi) trionfò al Festivàl di Sanremo con il brano Non pensare a me, in coppia con Iva Zanicchi;
4) L’epitaffio sulla tomba del cantante non è “Vita sei grande. Morte fai schifo”, ma “Vita sei bella. Morte fai schifo”;
Le suddette correzioni oggettive non sono frutto di un “maniaco fan di Claudio Villa”, ma di uno studioso della Storia della Canzone Italia, qualifica non propriamente attribuibile a Goffredo Fofi.
La libertà di esprimere la propria opinione in merito ai più svariati argomenti è ormai una caratteristica del mondo moderno e generalista in cui viviamo.
Non bisognerebbe però perdere la buona creanza ed abitudine di vagliare la veridicità delle proprie affermazioni.
(P.S. Questo articolo, tramite e-mail, è stato inviato alla redazione di Agorà del quotidiano Avvenire)
“Palcoscenico”
Siamo sicuri che il Teatro sia culturalmente più rivelante della Canzonetta e di Sanremo. E ce lo deve dire Gabriele Lavia?
In una recente intervista a Il Messaggero, l’attore Gabriele Lavia ha descritto il Festival di Sanremo e la musica pop in generale come arti minori, quasi come la “musica leggera” dovesse chiedere scusa del fatto di essere inserita fra le arti umane, senza alcuna possibilità e senza alcun appello di poter essere paragonata al Teatro. Il grande Teatro. Siamo sicuro però che, il grande Teatro, smuova economicamente quanto smuove il mondo musicale? Dubito.
Come ribadito da più testate, la raccolta pubblicitaria della RAI per il Festival di Sanremo 2020 ha fruttato ben 37 milioni di euro, non una cifra da poco per cinque serate televisive. È indubbio che, con il passare del tempo, il Festival sia diventato un vero e proprio evento e show televisivo, perdendo quel candore e quella purezza che lo avevano contraddistinto sino all’edizione numero 29 del 1979. Rimane però l’unico concorso canoro ad essere sopravvissuto all’anno “tristo” 1975 (non mi dilungo molto, gli “addetti” sanno di cosa parlo) nonché l’unico evento musicale in Italia (o quasi) a destare l’interesse delle grandi case discografiche a livello promozionale e di vendite.
Eh sì, purtroppo. Anche se un brano diceva “ma che cos’è una canzone, è una storia che nasce da ogni emozione”, bisogna anche dire che dietro a quel brano c’è un cantante e c’è tutta una industria i quali hanno bisogno di dover “mettere insieme il pranzo con la cena” attraverso un guadagno, così come devono farlo anche gli attori teatrali. Peccato, per il Signor Lavia, che ciò che fa Fedez (uno a caso eh) attiri l’attenzione di popolo e paese. Quello che fa il Signor Lavia meno (molto molto meno).
Le canzonette, come le ha definite l’attore Lavia, generano attenzione e continuano ad esistere anche dopo la morte dei loro autori (basti pensare a Santa Lucia di Teodoro Cottrau per la musica ed Enrico Cossovich per le liriche, entrambi deceduti ben prima del 1900). La cultura espressione del proprio tempo, purtroppo, genera sempre sdegno e scalpore e non può essere paragonata a quella degli “avi”, in quanto purtroppo, in Italia, chi è venuto prima ha sempre fatto meglio, dovunque e comunque (infatti qualcuno ancora dice “quando c’era lui…). Per questo, la trap odierna (genere che comunque non amo) viene per la maggior parte disprezzata, essendo frutto dei nostri tempi. “Cosa direbbe Rossini? Il Pergolesi inorridirebbe! Cosa farebbe il povero Caccini?”. Un cazzo, ecco cosa farebbe. Un benemerito cazzo.
Per quanta cultura si possa veicolare, per quante masse si possano smuovere, la verità è quella che cantava Herbert Pagani: quello del Palcoscenico è un “mestiere da puttane”.
(Foto di copertina: Teatro Manzoni di Milano)
L’ultima casa accogliente – Guida al Circo Zen
Ho conosciuto The Zen Circus per caso. Poco prima dell’uscita dell’album “La Terza Guerra Mondiale”, in un momento in cui ero spettatore, ma non tifoso, del panorama musicale italiano.
Gli Zen sono un gruppo strano, un rock contaminato che si discosta dalla scena italiana. Un gruppo che difficilmente delude le aspettative, attenti osservatori del mondo, della politica, della vita. Ahhh, i cantanti impegnati.
Sono stato, purtroppo, solo due volte ai loro concerti. Di entrambi ricordo la follia di quelle ore, il cibo spazzatura, le attese infinite e poi Appino, il cantante, che tuonava: “Ai concerti degli Zen c’è una sola regola, più voi fate casino, più noi facciamo casino”.
Del secondo ho un particolare ricordo, una scena, del viaggio di ritorno: l’amico (era venuto principalmente per Willie Peyote che si esibiva prima) che mi accompagnava mi fa: “Devastanti dal vivo”. Ciao Cristian.
Il 13 novembre 2020 è uscito l’album “L’ultima casa accogliente”. L’ennesima conferma. Un altro cazzutissimo lavoro.

Pareri non richiesti Nessuna recensione canzone per canzone. A me, me piace.
Il disco è composto da 9 canzoni, che risulteranno troppo poche. A differenza di quanto può suggerire il titolo, gli Zen non fanno nessun vero accenno alla permanenza forzata nelle proprie abitazioni, alla pandemia.
L’album segue il filo del penultimo lavoro “Il fuoco in una stanza”, si discosta dalla linea più cattiva di “La Terza Guerra Mondiale”. Un album di di sofferenze, di malattia, quasi blasfemo per i più bigotti, di contraddizioni.
“Chiediamo verità per tutti gli uomini
Ma i primi siamo noi a dirci bugie orribili” (da Catrame)
Come spesso accade si sono dimostrati maghi dello storytelling. In “2050“, una ragazza che ripensa alla storia dell’uomo in un futuro post apocalisse, dopo la “creazione” degli Stati Uniti del Mondo. Appino immagina di incontrare la madre ventenne, di offrirle da bere, così nasce “Ciao sono io”.
Un prorompente esempio, uno dei miei preferiti, il pezzo “Bestia Rara“: protagonista una ragazza che decide di abortire; la reazione sono il pianto della madre e le chiacchiere di paese. Provate a non urlare quando
“Sei una bestia rara ma non lo sai
Una puttana come dite voi
Tua madre piange e ancora piangerà
Ma non preoccuparti, abbracciala“
Tematica più attuale che mai, a 40 anni dall’acquisizione del diritto di abortire, anche in Italia, c’è ancora chi fa di tutto per impedirne l’applicazione, qualcuno che pensa di essere il missionario che negherà la scelta alla donna. I pezzi più rappresentativi e più poetici sono “Non” e “L’ultima casa accogliente“, che dà il nome all’album. Sulla Panchina suggerisce e approva.
“Sono solo canzonette”
In Italia, anche se si parla di canzoni, bisogna sempre e comunque farlo con ignoranza e superficialità, sebbene a farlo siano gli stessi cantanti
Nella foto di copertina: i Ricchi & Poveri a Canzonissima 1973
Attualmente, ed il motivo è facilmente immaginabile, mi trovo a lavorare da casa. E, da un po’ di tempo a questa parte, non mi sta dispiacendo a fatto. Riesco infatti ad organizzare al meglio possibile la mia giornata, riuscendo anche a godermi la fantastica programmazione che la RAI mi offre all’interno del palinsesto mattutino. Dopo Uno Mattina, che rimane veramente un signor programma anche grazie alla conduzione di Marco Frittella e Monica Giandotti, segue alle ore 9:55 una trasmissione che sarebbe televisivamente da analizzare secondo per secondo: Storie Italiane. A condurla, una delle storiche Del Noce’s Angels: Eleonora Daniele. Sono sicuro, anzi arcisicuro, che fra qualche anno questo programma tv sarà di certo protagonista di qualche saggio o di qualche lavoro analitico di livello universitario. All’interno di questa trasmissione si dipanano le più variegate storie italiane, per l’appunto, con una variazione di tonalità emotive da mettere quasi spavento: si può passare dalla tragedia dei due fidanzati di Lecce ad Orietta Berti che parla di se stessa all’interno della medesima puntata. Di un funambolismo incredibile.
Orbene, lo scorso venerdì 9 ottobre, nella parte finale della trasmissione, è andato in onda una specie di dibattito fra Paolo Mengoli ed Elenoire Casalegno, con altri ospiti di contorno come Rosanna Fratello e Wilma Goich, sull’impatto che possono avere i testi delle canzoni ascoltate dai giovani di oggi e sul loro valore artistico. Non so quanto la Casalegno possa essere ferrata in merito, ma conosco certamente meglio Paolo Mengoli (avendo anche un suo L.P.) e, con due Sanremo all’attivo, di canzoni certamente qualcosa lui ne sa, ma per quello che pare a lui, in quanto non ha ben realizzato che il mondo non si è fermato al 1975. Se la Caselegno sosteneva infatti che anche brani come quelli cantati dai trapper e da artisti come Achille Lauro hanno una loro dignità artistica, Mengoli diceva al contrario che sarebbero ancora da preferire le canzoni in cui “cuore fa rima con amore“, suscitando l’ilarità della Casalegno e anche la mia. La cosa che in tutto ciò mi ha dato fastidio, è che un artista come Mengoli dovrebbe rimembrare la propria storia personale con obiettività e ricordarsi anche quello che in passato si è cantato. Per puro esempio, prendiamo il brano con cui il nostro vinse il girone giovani del Cantagiro 1970: Mi piaci da morire. Esaminiamo una parte del ritornello, il cui testo è di Bruno Broglia e Giuseppe Perotti:
“Mi piaci da morire/ resta sempre come sei/ per tutto l’oro al mondo/ sai che non ti cambierei“
La profondità di queste parole mi uccide. Ho citato questo brano per dire cosa. Brevemente, nemmeno chi fa parte del mondo della canzone riesce con obiettività ad effettuare una lucida analisi di ciò che lo circonda. Mengoli ed altri (e non solo persone di mezza età) non comprendono quanto il linguaggio sia cambiato in 50 e più anni. Chi scrive, fra l’altro, è un vero e proprio innamorato della melodia italiana e che, sempre fra l’altro, festeggiò per la vittoria de Il Volo a Sanremo 2015. Però c’è anche obiettività da parte mia. Come si può pensare che un ragazzo nato fra il 2000 ed il 2006 possa apprezzare un brano in cui “cuore fa rima con amore” nel 2020? Ci saranno pure, ma rimangono sempre e comunque delle mosche bianche. La non obiettività di Mengoli figura poi nel non ricordare come sia nata e come si sia svolta la sua carriera di cantante. Alfredo Rossi, patron della Ariston, la casa discografica madre della Jet per la quale incideva Mengoli, aveva visto in lui (bolognese) un ottimo secondo Gianni Morandi (l’allora Golden Boy della canzone italiana), e difatti, se si va a vedere qualche esibizione televisiva dell’epoca, si possono notare alcune somiglianze fra i due nell’interpretazione e nella prossemica. L’operazione ebbe un riscontro minimo e la carriera di Mengoli non decollò mai definitivamente e il cantante rimane oggi ancor più ricordato per essere stato uno dei fondatori della Nazionale Italiana Cantanti nel 1975 che per le canzoni da lui interpretate. La domanda che animava il pubblico di allora sarà infatti stata sicuramente questa: ma se io ho un Gianni Morandi originale della RCA Italiana, perché devo acquistare i dischi (allo stesso prezzo fra l’altro) di un doppione di una sottomarca della Ariston?
In conclusione, io non ce l’ho con Paolo Mengoli, anzi. Apprezzo molto alcuni suoi brani come I ragazzi come noi , Ahi, che male che mi fai! e Perché l’hai fatto, dato che sono nel puro stile della melodia italiana da me amato. Ciò che non apprezzo per nulla è il non capire quando qualcosa storicamente sia finito, ovvero un certo momento della discografia italiana, e non potrà mai più ritornare; ma ancor più il fatto che nessuno capisca che il testo di una canzone non potrà mai influenzare negativamente qualcuno. All’ultimo anno di laurea triennale, il grande prof. Giorgio Simonelli ci spiegò che in ogni età ed in ogni epoca il “nuovo medium” era sempre visto con paura. Ci sono passati tutti: i dischi, la radio, la Tv, il web… Ora ci stanno passando i trapper. Io mi domando: un brano come Me ne frego, come può mai influenzare negativamente qualcuno o fargli compiere qualcosa di sbagliato?
Si cantava che “una canzone è una storia che nasce da ogni emozione“, ma non dimentichiamoci anche che sono (sempre e comunque) solo canzonette. Non tutte pero, eh.